Il cappero viene da un bocciolo. Il bocciolo di un fiore bello come un’orchidea. Un fiore che esplode al tramonto. Quando mangiamo un cappero mangiamo quindi un fiore, facciamo nostri la sua eleganza e il suo profumo.
Probabilmente è di origine tropicale. Di certo si sa che gli arabi lo chiamavano cabir, i Greci kàpparis, i Romani capparis e che esisteva già nel 5.800 a.C. (in Iraq). In tempi, diciamo recenti, ne hanno parlato Aristotele, il più dotto dei filosofi greci, e Teofrasto, allievo prediletto di Aristotele e autore della Storia delle piante. Prima di loro, fra il quinto e il quarto secolo a.C., sempre in Grecia, Ippocrate, il principe dei medici dell’antichità, si pronunciò sulle proprietà curative dei capperi. Evidentemente non bastava riconoscere ai capperi capacità medicinali o prerogative gastronomiche: Prassitele, uno dei massimi scultori ateniesi del IV secolo a.C., somministrava capperi sotto forma di cosmetici alla bella Frine, cortigiana e modella, immortalata dallo stesso Prassitele nella celebre statua di Afrodite, che come si impara sui banchi di scuola non è altro che il nome greco di Venere. Da maggio a fine d’agosto ogni pianta viene visitata e spogliata dei boccioli una volta a settimana e i futuri capperi vengono stesi a riposare per uno o due giorni in un luogo fresco e ombreggiato (alla luce sboccerebbero). Ideali per questo riposo sono le terrazze delle case eoliane, ventilate e coperte dalle canne. Il fiore lasciato sul ramo appassisce rapidamente e sviluppa una bacca di un paio di centimetri che assume la forma e il colore di un piccolo cetriolo. Per i botanici è il frutto che contiene i semi della pianta, per gli eoliani è il cucuncio, creato dalla natura per la delizia del nostro palato. Appena colti, sia i capperi che i cucunci, sono amarissimi ma l’umore sgradevole se ne va con la salatura, la cura, che inizia alternando in una tinozza uno strato di capperi e uno di sale marino. Dopo due o tre mesi e ripetute salature sono pronti per il consumo o la conservazione.
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